Mediterraneo III

Baballotti baballotti

su chi andat a de notti

su chi andat a de dì

baballotti croccadì…

La filastrocca, recitata come ogni sera mentre la marchesina Eleonora Mereu, ormai divenuta semplicemente mamma Alena, metteva a letto i bambini, terminava sempre con un bacio sulla fronte di entrambi, che sanciva il momento della buonanotte.

Ma mentre Carlotta, la piccola, chiudeva gli occhi e subito s’addormentava, il più grande, Cesare, si ostinava a voler restare sveglio, nonostante le palpebre iniziassero a farsi pesanti, con la sua solita richiesta: “ancora, mamma, ancora una!”

Così, la mamma ripeteva la sua filastrocca, ancora una volta, con voce più bassa e dolce, finché anche il primogenito non sprofondava nel sonno.

Erano i primi giorni di settembre e seppur stanchi per la vendemmia, quei giorni, condivisi con tutta la comunità, erano motivo di festa: gli uomini si aiutavano nella raccolta dell’uva matura dai filari, e le donne organizzavano la sistemazione dei grappoli dentro ai tini per la pigiatura. Anche i bambini e i ragazzi di ogni età venivano coinvolti nella lavorazione: i più piccoli erano incaricati a raccogliere i chicchi caduti sul terreno, poiché nulla andasse perduto, mentre i più grandicelli, pur non avendo diritto di utilizzare le forbici da potatura, potevano spiccare dai rami più bassi i grappoli maturi con i roncolini.

La vendemmia finiva dopo il tramonto, e al termine dei lavori iniziavano i festeggiamenti: dopo che le donne avevano nutrito e messo a letto i più piccoli, e gli uomini pulito con cura e sistemato tutti gli attrezzi, si poteva ora celebrare il compimento di un anno di lavori e cure meticolose, con canti e balli, e bottiglie di vino. Quella notte, oh quella notte era magica! Era il momento di celebrare il ciclo della vita, la rinascita che ogni anno, a dispetto dei potenti della terra, ogni uomo o donna che avesse familiarità con la terra poteva percepire con tutti i sensi… qualcosa di più grande dei beceri giochi di potere tra casate, il contatto con l’Eterno.

Quell’anno la voglia di festeggiare il raccolto si mescolava al senso di sopravvivenza, era passato infatti esattamente un anno dall’ultima incursione barbaresca che rapì e fece schiavi quasi tutti gli abitanti della vicina isola di San Pietro, e la voglia di riscatto e di riprendere la normalità della vita si percepiva in maniera palpabile, benché nessuno tra i presenti facesse riferimenti diretti a quell’evento. Tutti su quell’isola avevano perso in quell’evento un amico, un famigliare… senza neppure la possibilità di poterlo piangere. Persino il capitano ricordava con afflizione la cattura fra quel migliaio di disgraziati del suo compagno d’arme il Visconte Ascher di Flumini, al cui fianco aveva combattuto pochi anni prima contro Truguet. Gli uomini sull’Isola sentivano sulle proprie teste svolgersi i destini del Mediterraneo, i fili tirati dai grandi della storia muovevano eventi che essi non avevano il potere di controllare. L’Inghilterra, la Francia, tutto il mondo sembrava in fermento…

Esiliato a Cagliari, il re Carlo Emanuele pochi mesi prima era giunto insieme alla sua famiglia e a ben sette navi di dignitari, principi, ministri, ufficiali e tutto il servidorame appresso, caricando l’intera isola di Sardegna di nuove tasse per poter provvedere alle loro esigenze. La permanenza del re in Sardegna non sarebbe durata a lungo: a seguito delle vittorie dell’esercito russo sulla Francia, culminate nella battaglia di Novi il 15 agosto 1799, Carlo Emanuele da lì a poco avrebbe lasciato la Sardegna nelle mani del viceré, suo fratello Carlo Felice, per cercare di tornare a Torino, cosa che con diverse traversie, non avvenne che dopo anni di peregrinazioni: a Roma, ad Albano, a Gaeta… finché nel 1806 non fu costretto dagli eventi a tornare nuovamente a Cagliari, con gran scorno. La restaurazione era ancora lontana.

Francesco Auberti, ex capitano dell’esercito sabaudo, dopo anni di sacrifici ed estenuanti lavori diventato a tutti gli effetti uno dei più capaci e affermati produttori di vino dell’Isola di Sant’Antioco, non dimentico comunque delle sue origini, aveva fino a quel momento cercato di nascondere per quanto possibile le sue preoccupazioni alla moglie Alena, la madre dei suoi due figli. Come avrebbe potuto confessarle il tarlo che celava nella sua mente ormai da mesi? Quel senso di impotenza che lo attanagliava la notte nel dover stare lì ai margini della storia mentre i suoi uomini combattevano al fronte per cercare di riprendersi la propria patria.

Così, mentre la moglie, stanca per le fatiche della giornata, giaceva già a letto per il meritato riposo, lui, insonne, si sedette allo scrittoio, per dare forma ai suoi pensieri.

Calasetta, 2 Settembre 1799

Amico mio,

ti scrivo contro ogni buon senso e spero che queste mie parole arrivino a te e non vengano lette da nessun altro. Non è consuetudine che i fantasmi scrivano lettere, ma ho bisogno di notizie fidate e chi più di te può avere la mia fiducia?

Quando cinque anni fa ci siamo salutati per l’ultima volta ho compiuto una scelta, e non la rinnego. La rifarei altre mille volte perché ciò che quella decisione mi ha portato è fonte di immensa gioia.

Ma anche qui le notizie arrivano al mio orecchio e non posso ignorare la voce della vergogna. È tutto vero ? I Francesi si sono presi Torino? Ora la terra in cui sono nato si chiama “Repubblica Subalpina”?

So che è vero, ma ti prego… se puoi rispondimi e dimmi cos’è andato così male da permettere ai Francesi di coniare le loro monete e calpestare la terra per cui i nostri fratelli d’arme hanno dato il loro sangue?

So che un solo uomo non cambia le sorti di una guerra, ma non posso purificare la mia mente dal pensiero di non esserci stato. Ho scelto un amore più grande di quello verso la mia patria, e il prezzo che devo pagare è quello di vederla nelle insanguinate mani dei Francesi? Non mi do pace. Ogni giorno quando vedo i miei figli sento d’averli privati di una parte importante della loro storia.

E mi dispiace dirtelo in questa grave lettera perché avrei voluto lo sapessi in modo più felice, ma sì, ho due figli. Un maschio di tre anni e una femmina che a breve ne compirà uno. Cesare, come mio padre, e Carlotta. Li guardo crescere ogni giorno e ogni giorno non perdo la speranza di poterli portare a Torino. Ma queste notizie rendono le mie speranze solo sogni.

Mio caro compagno d’avventure, non temere e non sospettare nemmeno per un secondo che io possa pensare di rivolere ciò che ormai è tuo per legge (sempre che i Francesi abbiano lasciato gli averi della mia famiglia così come io li ricordavo). Non sfrutterò il tumulto politico del momento per ritornare fra i vivi. A questo tu dovresti credere senza dubbio, conosci la mia fedeltà e sai che morirei piuttosto che tradire la parola data.

So che la famiglia Savoia si è rifugiata a Cagliari e conosco la mia gente, il loro orgoglio e la loro ostinazione e so che faranno il possibile per riprendere ciò che è loro.

Non è curioso che il nostro ultimo dialogo riguardasse proprio questo argomento? Lo ricordi? Noi eravamo gli invasori. Ora siamo gli invasi. Ora puoi comprendere l’animo ostile dei Sardi? Scusami. Scrivo sciocchezze ma è colpa della mia mente rabbiosa e dell’impossibilità di poterne parlare apertamente con chiunque altro. I pensieri s’accumulano e uso questa lettera per sfogarli.

Ricordo quando ti ho conosciuto, ho visto subito nei tuoi occhi che non eri lì come tutti gli altri uomini del tuo rango per un pasto caldo e una paga fissa con cui sfamare la tua famiglia. Nei tuoi occhi c’era lo stesso ardore e la stessa convinzione che spingevano me ad imbracciare un’arma.

Sei ciò che sei ora per merito mio. E non lo dico con la convinzione che tu mi debba qualcosa… ma solo nella speranza che tu possa fare per me la sola cosa che mi darebbe un po’ di pace.

Quando avrai notizie di un moto rivoluzionario t’imploro d’informarmi.

Mi presenterò come volontario con un falso nome, mi vestirò della divisa del grado più basso e solo la mia coscienza saprà che il Comandante Francesco Auberti non è venuto meno al suo giuramento ed era con i suoi fratelli che si sono mossi per tentare di rispedire i figli di Napoleone oltre le Alpi.

Sono sempre stato pronto a morire per ciò in cui credevo, e oggi che sono marito e padre lo sono anche di più.

Ti lascio un mio recapito. Sono persone fidate, so che non leggeranno ciò che mi scriverai. Confido in una risposta.

F.A.

Chiuse la lettera nella busta e la ripose nella tasca interna della sua giacca. L’indomani di nascosto avrebbe trovato il modo di spedirla. Lei dormiva, ignara di ciò che la sua mente stava pensando.

Alla notizia dell’invasione gli aveva chiesto come si sentisse e lui aveva cercato di non preoccuparla. Sapeva che si sarebbe infuriata ma sapeva anche che poi avrebbe capito, perché lei non amava solo l’uomo che aveva scelto di rimanere al suo fianco per poterla amare, lei amava anche il Comandante delle truppe Sabaude che aveva conosciuto il primo giorno che aveva messo piede sull’Isola. Lei in un qualche modo amava entrambi.

“Non riesci a dormire?” la voce impastata dal sonno di lei lo riportò in quella stanza da letto, lontano dai pensieri.

“Non volevo svegliarti “

“E tu non hai risposto alla mia domanda…” sorrise lei toccando con la mano la parte di letto vuota “Vieni qui… Non c’è pensiero che tu non possa confidarmi.”

“Lo so” rispose lui raggiungendola in quel letto e lasciando che lei si infilasse nel suo abbraccio.

“Allora perché non me li dici ?”

“Morirei per te e per i nostri figli” disse lui avvicinandosi alle sue labbra per baciarla.

“Ne sono certa, ma ti vogliamo vivo.”

“E non c’è cosa che la Marchesina voglia che non ottenga.”

“Ho smesso di volere qualcosa di più quando ho avuto te in dono…” sospirò lei quando sentì la mano calda del suo uomo infilarsi sotto la sua camicia da notte per cercare la sua intimità. C’era qualcosa di magico in quelle mani, nel suo profumo… nel suo essere che lo rendeva il suo punto più debole, il solo che poteva piegarla, domarla, che poteva addomesticare la sua indole ribelle e indipendente.

“Ma non sfuggirai alla risposta infilandomi una mano fra le cosce…” aggiunse mordendogli delicatamente il labbro.

“Non sfuggo alle tue domande…” disse lui accarezzandola lentamente e sentendo sulle sue dita il piacere di lei bagnargliele.

Lei gli respirò sulle labbra, persa in quelle intime e lussuriose carezze, desiderandolo come la prima volta che lui l’aveva sfiorata.

“Sfuggo dalla realtà… cerco asilo nel solo luogo del mondo in cui so di trovare pace…”

“Sempre…” riuscì a sussurrare lei, prima di baciarlo con passione.

Quella parola, che per loro significava tante cose… ma che nascondeva ogni volta un “ti amo”.

Un codice. Un gioco nato per caso.

“Sempre” la parola più bella inventata dall’essere umano. Una parola che attraversa il tempo, la volontà i problemi… Sempre. Che supera l’eterno.

La sola parola che poteva descriverli.

Le avrebbe parlato… Le avrebbe detto della lettera prima di spedirla… ma non in quel momento. Ora aveva bisogno di perdersi in lei…

Il mattino seguente li colse ancora abbracciati, la pelle sulla pelle. Strapparsi a quell’abbraccio per iniziare la giornata era ancor più arduo del solito, non solo per le poche ore di sonno, non soltanto per il richiamo alla realtà del vociare dei bimbi ormai svegli, che parevano avere energie infinite a differenza degli esausti genitori. Per Francesco quella mattina abbandonare la pelle profumata della moglie aveva anche il peso di una verità da dover confessare.

Così, mentre la guardava immergersi nelle mattutine risate di quei due piccoli miracoli dell’esistenza, lui infilò ad uno ad uno i suoi abiti con gesti misurati, di greve lentezza, diversa dal suo piglio solito.

Sentendo il peso di quella lettera celata nella tasca della giacca premergli sul petto, cercò il coraggio e le parole per poter spiegare a sua moglie la decisione che in cuor suo aveva già preso.

“Nena, amore mio…”

Alena si volse verso suo marito, conscia che quel tono di voce fosse un preludio a qualcosa di grave, la rivelazione di quanto dei suoi pensieri già trasparisse da tempo. Lui le prese la mano, e proseguì.

“Ho bisogno di parlarti, vita mia. Da tempo ormai un pensiero mi tormenta. Ci siamo rifugiati in questo angolo di mondo, ma anche qui le nostre vite vengono scosse dagli avvenimenti politici. Le incursioni piratesche che si abbattono sulle nostre coste non sono altro che il riflesso della situazione di difficoltà della corona a Torino. Gli eserciti sono impegnati sul fronte settentrionale, è chiaro che difendere anche tutte le coste non sarebbe possibile. Se i Savoia non torneranno al loro posto, anche per noi qui sarà sempre peggio”.

Alena lo guardò senza interromperlo. Nei suoi occhi verdi riusciva a leggere la profonda inquietudine che attanagliava la sua mente.

“Ho scritto una lettera, ma non posso spedirla prima di mostrartela, per l’amore che provo per te e per i nostri figli voglio che tu sappia che ciò che mi ha spinto a scriverla non è l’impulso di un momento, ma una decisione maturata con sofferenza.”

Infilò la mano nella tasca della giacca, e le porse la lettera, che lei scartò con mano tremante, dispiegò e prese a leggere con attenzione.

“Vuoi… partire? Vuoi tornare a combattere?” gli disse con un filo di voce, non appena arrivata al termine della lettura. “Hai intenzione di lasciarmi qui, da sola, a crescere i nostri figli mentre tu renderai tua moglie vedova e i tuoi figli orfani? È questo che vuoi? …Oh Gesù mio…” si accasciò su una sedia, coprendosi il volto con le mani, cercando di mitigare il respiro, placare il suo cuore che iniziava a rombare dentro le orecchie come una raffica di tuoni durante un temporale.

“Come puoi pensare che io ti dia la mia benedizione per questa follia?”

“Ti prego Alena, comprendimi. Hai sposato un uomo d’arme, è di un militare che ti sei innamorata. Non posso seguitare a fingere che tutto questo non mi riguardi, non posso continuare a consumarmi mentre penso ai miei fratelli che muoiono per difendere i nostri confini, standomene qui al sicuro nel rifugio di una vita quieta! È insieme a loro che dovrei essere in questo momento, per poter poi tornare da te con la coscienza pulita per aver tenuto fede al mio giuramento! Perché io tornerò, te lo prometto, tornerò sempre da te!”

“Ti farai ammazzare per difendere quei Savoia che tanto ci disprezzano… che mi importa se i padroni si chiamano Piemontesi, Francesi, Spagnoli o Turchi! Saremo sempre pedine nelle mani di pochi che decidono per nostro conto, depredandoci di ciò che ogni giorno produciamo con fatica! Perché non riesci a comprenderlo? Qui le cose non cambieranno mai!” Le parole di Alena erano spezzate dal pianto, conosceva già l’angoscia di perdere l’uomo che amava, quanto si fosse indurito il suo cuore dopo essersi spezzato alla notizia che lui fosse caduto in battaglia. E ora… ora aveva due figli a cui badare… quei figli che insieme al marito erano tutta la sua vita…

Lui l’abbracciò, senza poterle rispondere oltre. Comprendeva ogni ragione della moglie, ma allo stesso tempo la sua decisione gli parve ancor di più l’unica percorribile. Il cuore nuovamente diviso in due… l’amore per la famiglia e l’amor di patria.

Nel calore del suo abbraccio, Alena parve lentamente iniziare a quietarsi.

“E sia”, disse, ricomponendosi e sollevandosi in piedi, riassumendo la sua consueta postura, elegante e fiera. “Ora va a spedire questa lettera, o non mi perdonerò mai di averti impedito di fare ciò che il tuo cuore ritiene più giusto.

E, una volta chiuso il portone alle sue spalle, lontano da ogni sguardo, la marchesina Eleonora Mereu diede sfogo a tutte le sue lacrime.

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