Svanita anche l’eco degli ultimi bombardamenti, permaneva il pericolo di nuove spedizioni francesi alla conquista dell’Isola e nell’incertezza, lo stamento militare sollecitava al Viceré Balbiano maggiori apprestamenti. Il Viceré, seppur riconoscendo determinante il contributo delle Milizie Sarde nel respingere lo sbarco di Truguet a Calamosca, nulla poté per convincere Vittorio Amedeo III a concedere in premio alla fedeltà dei Sardi alla bandiera Sabauda un seppur piccolo riconoscimento delle richieste degli stamenti di una maggiore autonomia politica ed economica. Eppure sarebbe bastato convocare il Parlamento almeno una volta per dimostrare ai suoi sudditi quel minimo di considerazione che ci si aspettava dal proprio Sovrano… Un sovrano che invece non faceva mistero di tenere talmente in spregio la popolazione sarda da non degnarsi neppure di incontrare la delegazione organizzata per perorare la loro causa.
In quegli anni di serpeggiante malcontento, una giovane donna, fiera figlia del Marchese di Mereu, aveva più di un motivo per avercela contro gli oppressori piemontesi…
Il suo cuore spezzato nell’attesa vana del ritorno dell’uomo che le aveva rubato gli occhi e la virtù: soldato dell’esercito sabaudo di stanza a Cagliari, richiamato dalla Corona a difendere i confini del Nord dall’avanzata delle truppe francesi, e ucciso infine nella battaglia dell’Authion sotto il fuoco francese costretto alla ritirata.
Così le raccontarono i veterani di ritorno, e lei pianse tutte le sue lacrime prosciugandosi il cuore, e giurò che mai più avrebbe amato un uomo in vita sua.
Quando l’anno successivo, nella primavera del 1794, un uomo nella sua divisa blu dalle mostrine scintillanti bussò alla sua porta, dal balcone del piano superiore lo vide scoprirsi il capo ponendosi il cappello sottobraccio, e alla vista di quei capelli color del grano e della figura fiera che si stagliava nella luce del giorno, alla giovane marchesina parve di vedere un fantasma.
Si precipitò giù per le scale con il cuore in gola, e aprendo il pesante portone vide proprio lui, il suo capitano dagli occhi verdi come il mare e quello stesso sorriso da filibustiere che aveva fatto scoprire al suo cuore l’amore per la prima volta.
“Ti odio!” gli gridò in faccia reprimendo le lacrime che premevano per sgorgare dai suoi occhi.
“Sono tornato per te!” le rispose lui, sorpreso di quell’accoglienza tutt’altro che amorevole. Quante volte l’aveva sognata, nelle lunghe notti al fronte, e il pensiero di tornare fra le sue braccia era l’unica cosa che riusciva a scaldargli il cuore. Tutto si aspettava, fuorché quel fuoco d’odio che le balenava negli occhi.
“Tu… tu eri morto! Ucciso sui monti hanno detto! Mi hai lasciata da sola!” non poté più trattenersi e i singhiozzi la scuotevano tutta, il morbido seno sussultava mentre copiose lacrime le rigavano il volto.
“Ho attraversato il mare per te, son tornato non appena ho potuto! Mia bela cita… se solo avessi saputo… ti avrei mandato mie notizie quanto prima, per fugare queste vili menzogne! Sono stato ferito in battaglia, la mia vita però non è mai stata in pericolo, ho dovuto affrontare una lunga convalescenza e solo il pensiero di tornare da te mi dava la forza di sopportare le lente giornate di ozio forzato…”
“Non c’è da fidarsi dei Piemontesi, che sciocca sono stata a pensare che tu fossi diverso da quella stirpe di vili, bugiardi e oppressori! Io ti odio! Ti detesto!”
Quelle accuse, ricevute da chiunque altro, lo avrebbero indispettito al punto da girare i tacchi e lasciarlo lì senza meritar risposta… ma lei, lei aveva il potere di fargli irrigidire il cazzo anche in quella occasione, la voglia di strapparle i vestiti e prenderla lì sul portone gli salì al cervello, e pensiero azione furono un tutt’uno.
Le tappò la bocca con il bacio più sporco che potesse aver immaginato in quel lungo periodo di lontananza, bloccandole il collo con la sinistra, mentre la strinse a sé con tutta la forza della sua passione disperata, facendole sentire attraverso i vestiti quanta voglia di lei aveva in corpo.
Non le concesse pietà, chiudendosi il portone alle spalle la voltò verso il muro scoprendo quelle gambe tornite dalla lunga gonna, e piegandola in avanti cominciò a frugarla fra le cosce: “questo oppressore è qui per un solo motivo: riprendersi ciò che è suo” le ruggì nell’orecchio.
“Mi odi?” le disse afferrandole un seno “eppure ti piace… senti come sei fradicia…” La sentì gemere, e la frenesia di lei gli obnubilava il cervello.
Si slacciò i pantaloni, il tanto sufficiente per liberare il suo cazzo che smaniava per entrare in lei, e lo infilò con un colpo secco, fino in fondo, tenendola per i capelli per costringerla inarcandosi a prenderlo tutto.
“Sei l’unica al mondo che mi fa incazzare così tanto da farmi impazzire” le disse mentre la scopava più forte che poteva.
Lei gemeva sotto i suoi colpi, le lacrime continuarono a sgorgare dai suoi occhi, ma non erano più lacrime d’odio, o di dolore, era l’insopprimibile senso di felicità di un amore che nonostante i suoi sforzi non era mai riuscita a domare, l’incontrollabile voglia di godere per lui, insieme a lui, e tornare ad essere per quell’indicibile istante un’unica perfetta entità.
Lui pensò di morire di piacere mentre mordendole una spalla sentì le sue contrazioni stringergli il cazzo costringendolo a seguirla in quell’orgasmo primordiale e incontrollabile.
“Sei tornato da me” gli disse dopo un interminabile momento in cui si abbracciarono per riprendere fiato.
“Sono a casa, finalmente” rispose lui, prendendola in braccio e portandola su nella camera da letto.
Trascorsero la giornata rinchiusi in quella stanza da letto che era tutto il loro mondo, avevano bisogno di sentire la pelle sulla pelle, ritrovarsi piano, assaporarsi lentamente. Non sapevano ancora che quella notte avrebbe cambiato per sempre le loro vite, ignari dei tumulti che al di fuori iniziarono a lacerare la città.
Il 28 aprile 1794, nel quartiere di Stampace, intorno all’una del pomeriggio un gruppo di soldati circondò l’abitazione dell’avvocato Vincenzo Cabras. Le autorità piemontesi ne avevano disposto l’arresto, insieme al genero Efisio Pintor, perché considerati due pericolosi rivoluzionari intenti nei preparativi di una sommossa… Fu la scintilla che provocò la rivoluzione: i cittadini inferociti si riversarono nel quartiere di Castello per cacciare gli esponenti del governo piemontese dalla città.
Iniziò così “sa die de s’acciappa”, ovvero il giorno della cattura: chiunque fosse riconosciuto come originario piemontese fu catturato per essere rispedito nella propria terra, come da tradizione. A partire dal Viceré Balbiano fino ad arrivare al più modesto funzionario, tutti i Piemontesi in città nel giro di un paio di giorni furono catturati, imbarcati in maniera coatta su una nave e rispediti al mittente come un pacco postale.
Fu una fortuna per i due amanti che fossero occupati in altre faccende per tutto il pomeriggio, fino a notte inoltrata… ma le notizie giunsero infine alla porta dell’abitazione della marchesina sotto forma di un subalterno del capitano, il più fidato tra i suoi commilitoni, che sfidando la sorte e riuscendo a sottrarsi ai rivoltosi che gli urlavano “nara cixiri!” per poter scoprire se il soldato in borghese fosse uno straniero, riuscì ad avvertire il suo capitano dell’imminente pericolo.
“Che diavolo significa “nara ciSCiri?” chiese il capitano allungando i passi intorno alla stanza come un leone in gabbia.
“Cixiri…” lo corresse lei “Oh, è un bel trucco” rispose la marchesina: “se non sei in grado di pronunciare correttamente la X, è chiaro che sei uno straniero!”
“Non posso restare qui…” disse “mi troveranno e mi porteranno via!”
“Non oseranno entrare in casa mia! Sei al sicuro qui con me, per il momento. Attendiamo qualche giorno, nessuno sa che sei qui, a parte il tuo tenente, e lui non parlerà di certo…”
Restare. Partire.
Il cuore diviso tra la fedeltà da lui giurata alla Corona e i suoi sentimenti verso quella donna, che gli era entrata sotto la pelle più di quanto si aspettasse… Una decisione escludeva l’altra. Allora com’era possibile che entrambe sembrassero ciò che voleva?
Aiutare a sedare la rivolta, rischiando di venir catturato, o perdersi tra quelle lenzuola candide insieme a quell’angelo dagli occhi caldi e intensi? Non era tornato da lei per fuggire di nuovo spezzandole il cuore per la seconda volta.
Scopri di conoscere l’amore quando impari a conoscere anche la sofferenza della separazione.
Partire voleva dire perderla, e perderla significava soffrire.
Restare voleva dire cancellare la sua vita. Disertare, scappare e nascondersi implicava non poter più tornare nella sua casa, dalla sua famiglia. Macchiare il suo nome di vergogna.
Avrebbe perso in ogni caso. Qualsiasi fosse stata la sua decisione avrebbe perso qualcosa.
Si trattava solo di decidere cosa fosse più facile perdere.
“Capitano, la prego! Venga via con me! Dobbiamo lasciare quest’isola… Se la trovano qui io non so cosa potrebbero farle. Sembrano animali famelici…” disse il suo ufficiale sentendo che lei stava cercando di convincerlo a rimanere.
“Tu non lo saresti?” gli chiese “Se qualcuno entrasse in casa tua imponendoti il suo volere senza consultarti… tu non saresti arrabbiato? Non disprezzeresti quella persona? Io si…”
“Ma… Capitano…” balbettò confuso l’ufficiale.
“Potremmo scappare… nasconderci…” intervenne lei.
Per un istante a lui balenò in mente l’idea di portarla con sé a Torino. Ma senza la sua terra lei sarebbe stata una meravigliosa belva rinchiusa in una gabbia d’oro.
Lei era mare, vento… era l’odore dell’elicriso che riempiva i polmoni appena la costa s’avvicinava. Lei era parte della forza della natura che possedeva quell’angolo di terra.
Lei lo raggiunse, lo abbracciò da dietro baciandogli la schiena. Non aveva bisogno di spiegare il tumulto del suo cuore, lei sapeva esattamente quali pensieri si accavallassero nella sua mente. Lo sentiva, senza bisogno di parole. Era sempre stato così, dal primo istante che i loro occhi si erano incontrati, i loro pensieri e le loro emozioni erano legate a doppio filo.
“Se me lo chiederai io verrò con te fino in capo al mondo…” gli sussurrò avvicinandosi al suo orecchio, issata sulle punte dei piedi per riuscire a raggiungerlo, e offrendogli quelle labbra su cui avrebbe potuto morir felice.
Se l’avesse seguito la luce nei suoi occhi si sarebbe spenta. Forse non subito. Ma sarebbe successo e un giorno l’avrebbe odiato per averla sradicata da tutto ciò che amava.
Non poteva permetterle di dirgli di sì. Quindi non disse “Parti con me”. Semplicemente la guardò e le baciò le labbra.
Lei interpretò quel bacio come un addio, perché delle lacrime le rigarono il volto.
“No… ti prego… sei appena tornato…” disse piano lei.
“Hai qualcosa su cui scrivere?” le chiese.
Lei indicò uno scrittoio, proprio vicino al tenente. Vi sedette ed iniziò a scrivere qualcosa. Piegò il foglio e lo porse all’uomo che era venuto per portarlo via.
“Tieni questo.”
“Cos’è?”
“Il mio testamento. Il Capitano Auberti è morto qui. In Sardegna. Inventati qualcosa… e sii credibile. Ti ho nominato mio erede. Prenderai tutto ciò che è mio. Ora va, e prendi quella nave”.
“Capitano… io non posso…”
“É un ordine. Vattene via di qua e smettila di parlare con un morto!”
Aveva deciso. Preferiva inventarsi in un’altra vita piuttosto che vivere quella che conosceva senza di lei.
L’indomani mattina, alle prime luci dell’alba la carrozza della Marchesina di Mereu fu vista allontanarsi verso la costa occidentale per non fare ritorno a Cagliari mai più.
Mons. Ignazio Gautier, vescovo di Iglesias, piemontese pure lui di nascita, ebbe a cuore la sorte dei due giovani amanti e li unì nel sacro vincolo del matrimonio.
“Figlioli, a Calasetta, all’ombra della torre sabauda c’è una piccola comunità di famiglie provenienti dal Piemonte. Mescolatevi alle genti di quel piccolo borgo lontano dalle beghe di palazzo. Sarà per voi così come essere entrambi a casa”.
In città ben presto si sparse dunque la voce che la marchesina sposò uno di quegli intraprendenti coloni piemontesi che si installarono nel nord dell’Isola di Sant’Antioco i quali, apportando nuove preziose tecniche di coltivazione vitivinicola, misero a dimora numerose vigne iniziando così la produzione del Carignano del Sulcis, un vino rosso intenso, corposo e profumato, figlio del vento, del sole e del profumo della Sardegna… e della visione di un piemontese che decise di seguire il suo cuore.
E in una calma sera d’estate, dalla veranda della loro casa in cima alla collina, sedettero ad ascoltare il rumore delle onde che s’infrangevano sullo scoglio mangiabarche. Il vento caldo portava con sé il profumo della salsedine. Davanti, tutto il cielo stellato, e il mare che sembrava infinito faceva pensare che quel posto fosse il solo angolo di terra emerso.
Forse perché nato a un passo dalle Alpi, forse perché i primi passi li aveva mossi in una collina, forse perché gli era sempre piaciuto osservare la visione d’insieme delle cose… amava stare in alto, vedere le cose dall’alto gli donava un senso di pace. Essere in una via di mezzo fra la terra e le nuvole. Gli dava la sensazione di non appartenere a nulla, e al tempo stesso, poter essere ovunque.
“Aspetta… com’è che hai detto quando ci siamo conosciuti… ah si… sono l’oppressore” la prendeva in giro su quell’affermazione che lei fece appena conosciuti.
“Quanto vuoi farmelo pagare quell’aggettivo?”
“Non lo so…”
Per un breve istante, fissando il profilo di sua moglie in quel quadro, la immaginò attraversare ogni epoca della sua terra, gli sembrò di vederla camminare, calma e solenne, come fosse lo spirito di tutto ciò che rendeva magica quell’isola.
Accoccolatasi sul suo fianco, lei sorrise un attimo prima di incollare le sue labbra a quelle di suo marito, in un bacio che parlava più di mille promesse.
Questa è per la ricostruzione storica:
E questa per la storia d’amore:
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